Potere al Popolo deve continuare ad esistere come elemento propulsore della dinamica unitaria delle lotte, uno strumento per il riconoscimento reciproco dei diversi settori della classe e per cominciare a costruire campagne e battaglie comuni.
di Francesco Locantore
Per capire i compiti che sono posti a Potere al popolo e
quindi come continuare, bisogna partire dalla comprensione della fase
che si è aperta dopo le elezioni. Le elezioni del 4 marzo ci consegnano
la fotografia di un paese spostato a destra. Non poteva che essere così,
dopo anni di pesanti arretramenti della classe lavoratrice, dopo i
governi di grande coalizione guidati dal Pd che non hanno fatto che
aggravare le condizioni di vita delle masse popolari, attaccando i
diritti, massacrando lo stato sociale. Escono sconfitti i partiti che
hanno realizzato le politiche di austerità negli ultimi anni: il Partito
Democratico e i suoi satelliti, Liberi e Uguali, i cui principali
esponenti hanno sostenuto tutti i governi succedutisi dal 2011 ad oggi,
fino a Gentiloni, e la cui prospettiva annunciata di riscostruzione del
centrosinistra si è rivelata fallimentare. Sconfitta è anche Forza
Italia, anche se collocata nella coalizione vincente del Popolo delle
libertà, ora a guida leghista e con un ruolo rafforzato degli eredi del
Msi.
Le lotte, che pure si sono prodotte in questi anni contro
la riforma Fornero, il Jobs Act e la buona scuola, hanno perso anche per
la complicità delle burocrazie della Cgil con i governi del Pd, contro
cui si è rinunciato a portare fino in fondo queste battaglie. E nel
riflusso di quelle lotte si è prodotta una delle peggiori stagioni
contrattuali della storia repubblicana. I rinnovi di tutte le categorie
sono stati al ribasso, sia in termini economici che di diritti. Il
contratto dei metalmeccanici ha trainato questa stagione di saldi della
forza-lavoro.
Povertà e disuguaglianza crescenti, precarizzazione delle
condizioni di vita, hanno frammentato il tessuto sociale della classe
lavoratrice. Nell’impossibilità di vedere un’uscita collettiva da questa
situazione, come era prevedibile, sono cresciute nel senso comune le
false soluzioni di chi addita il nemico in chi sta ancora peggio di te:
l’immigrato, il rifugiato, il più povero e la sinistra che li difende
(le associazioni e le Ong). Le stesse politiche istituzionali del
ministro Minniti del Pd (e dell’Unione Europea in generale) hanno
legittimato il razzismo ormai dilagante.
La situazione istituzionale che si è determinata sarà di
difficile gestione per la stessa borghesia, per la oggettiva
complicazione della formazione di un governo in un Parlamento diviso in
tre blocchi apparentemente inconciliabili, nessuno dei quali ha i numeri
per governare da solo. Tuttavia se si dovesse riuscire a determinare
una maggioranza parlamentare, il governo che verrebbe eletto sarebbe
tutt’altro che in sintonia con le esigenze delle masse popolari
impoverite.
Sia nel caso di un governo in cui fosse protagonista la
Lega, sia in quello di un governo a guida del Movimento 5 stelle, si
profilerebbero riforme fiscali volte a far pagare meno tasse ai più
ricchi (con la flat tax del centrodestra ma anche con la
semplificazione delle aliquote dei 5 stelle), tagliando ulteriormente lo
stato sociale e/o spremendo i lavoratori dipendenti. Sia la Lega che il
Movimento 5 Stelle si sono affrettati a presentarsi ai poteri forti e
alle istituzioni europee come forze assolutamente compatibili con il
mantenimento del quadro degli impegni internazionali dell’Italia. Altro
che partiti antisistema!
La verità è che per ottenere miglioramenti significativi
delle condizioni di vita delle masse, ma anche solo per fermare l’ondata
di licenziamenti in corso, è necessario che la classe lavoratrice torni
protagonista del conflitto sui luoghi di lavoro e nei territori. Le
resistenze sociali, oggi numerose ma isolate e quindi perdenti, devono
generalizzarsi, riconoscersi l’una con l’altra e unirsi per fare fronte
comune. I diversi settori della classe, italiani e immigrati, giovani e
anziani, pubblici e privati, precari e non, uomini e donne, devono saper
ritrovare l’unità dei propri interessi di classe e rafforzare
reciprocamente le proprie lotte. O si avanza tutti, o indietreggia tutta
la classe, e poco vale compiacersi della fine di quelli che la
borghesia chiama “privilegi” di questo o quel settore di lavoratori,
tanto come abbiamo visto quello a cui puntano sono la depredazione dei
salari e dei diritti di tutte e tutti. Rilanciare il sindacalismo
conflittuale e di classe, l’unità sindacale tra le/gli sfruttate/i,
smetterla con le competizioni tra le sigle del sindacalismo di base e
chi costruisce correnti classiste in Cgil, è la precondizione perché
delle lotte efficaci possano svilupparsi nel prossimo futuro.
Un esempio virtuoso in questo senso è la battaglia del
movimento femminista degli ultimi anni per un piano contro la violenza
maschile sulle donne. Un movimento che ha cominciato a parlare con
settori importanti di lavoratrici (e lavoratori) chiamandole allo
sciopero l’otto marzo per due anni consecutivi.
Ci vuole un nuovo movimento operaio, femminista,
antirazzista, antiburocratico, internazionalista. Anche
internazionalista, sì perché è necessario costruire solidarietà in primo
luogo con le lavoratrici e i lavoratori in Europa che si battono per
gli stessi interessi di quelle/i in Italia, contro le politiche
neoliberiste e di austerità economica, che vengono dettate a livello
continentale dalle istituzioni dell’Unione Europea. Rompere con l’Unione
Europea per noi significa questo, rivoltarle contro le lavoratrici e i
lavoratori d’Europa, che ricostruiscono dal basso e nelle lotte il senso
della loro nuova solidarietà.
Il ruolo e l’utilità di Potere al Popolo si misurerà su
questo compito di ricomposizione delle lotte nel prossimo futuro, non
sul conteggio della percentuale elettorale che non poteva che essere
esigua. Un risultato elettorale insufficiente non significa che questa
coalizione abbia fallito il proprio obiettivo, che non era solo quello
della partecipazione alle elezioni politiche.
Potere al Popolo deve continuare ad esistere come elemento
propulsore della dinamica unitaria delle lotte, uno strumento per il
riconoscimento reciproco dei diversi settori della classe e per
cominciare a costruire campagne e battaglie comuni.
Proponiamo per questo di lanciare da subito una campagna
per la riduzione del tempo di lavoro. Riduzione del tempo di lavoro
significa che vogliamo una legge che introduca un limite di 32 ore di
lavoro settimanale, senza decurtazione del salario, anzi con
l’adeguamento automatico di quest’ultimo al costo della vita. Ma
significa anche ripristinare la pensione di vecchiaia a 60 anni e la
pensione di anzianità dopo 35 anni di lavoro.
Sono contenuti che abbiamo scritto a chiare lettere nel
nostro programma, ma che ancora devono vivere nel dibattito pubblico e
soprattutto come elemento rivendicativo che parli alle lavoratrici e
lavoratori in condizioni diverse: ai giovani che faticano a trovare
un’occupazione decente come a chi vorrebbe andare in pensione
dignitosamente dopo una vita di fatica; agli uomini e alle donne che
vorrebbero liberare del tempo della loro vita per se stessi e per la
cura dei propri affetti e dei propri interessi.
Sono contenuti che non contrappongono gli italiani ai
migranti, ma gli sfruttati agli sfruttatori. Perché gli enormi
incrementi di produttività ottenuti con le innovazioni tecnologiche
introdotte nei processi lavorativi, con l’inasprimento dei ritmi di
lavoro, sono andati dritti nelle tasche dei padroni! Sono loro che rubano il lavoro, alle/agli italiani come alle/ai migranti!
In questo quadro sarebbe giusto riconoscere un salario
sociale a chi è in cerca di un lavoro come a chi è studente, non già
come un mezzo per liberarsi dal lavoro, come sostenuto utopisticamente
da alcune aree della sinistra, né come un misero sussidio che rende
ancora più ricattabile il disoccupato, come proposto dal Movimento 5
stelle (ma anche Renzi aveva avviato un “reddito di inclusione” o altri
stati in Europa prevedono queste forme di ricatto).
Per assolvere a questi compiti Potere al popolo deve
raccogliere il meglio di quanto si è espresso in questi primi tre mesi
di esistenza, non già chiudendosi e costruendo un ennesimo partito nella
galassia della sinistra radicale, ma aprendosi con uno spirito
pluralistico alle energie e ai settori che hanno guardato anche con
interesse a questa coalizione in campagna elettorale, ma magari scettici
sulla decisione di praticare il terreno elettorale, a chi è stato
critico della nostra proposta ma è disponibile a costruire insieme
conflitto e mobilitazione, a chi ci ha conosciuto troppo tardi per darci
il consenso tramite il voto, a chi ancora non ci ha conosciuto di
persona nelle assemblee e soprattutto nelle lotte sui territori e sui
luoghi di lavoro. I compiti che ci sono posti richiedono un lungo
lavoro, uno spirito unitario, una volontà e capacità di discussione e
approfondimento sui temi su cui ci sono impostazioni diverse, come è
naturale in una fase storica come questa, ma anche una volontà di lavoro
comune sui tanti terreni di convergenza che abbiamo individuato nel
programma elettorale. E’ questo l’impegno di Sinistra Anticapitalista.
Nessun commento:
Posta un commento